mercoledì 16 settembre 2020

SI…NO…QUASI…

E’ tempo di Referendum: ancora una volta il popolo è chiamato a esprimere la propria opinione, il proprio  voto riguardo a una questione di gestione profonda della “Res-Pubblica”.
Ancora una volta l’intero Paese si sta dividendo tra i fautori del “SI” e gli strenui difensori del “NO”, in una perenne campagna elettorale che, francamente, ha veramente stancato.
Ma in cosa verte realmente il quesito referendario?
In sé appare estremamente semplice: volete o no ridurre il numero dei Parlamentari di circa il 30%???
Sembrerebbe una domanda a trabocchetto, come spesso la nostra povera politica italiana ci ha abituato: in effetti la questione non è così semplice, pare, anche perché appare curioso vedere come partiti o movimenti che nel 2016 chiedevano a gran voce al popolo di confermare una riforma che prevedeva un taglio simile nelle proporzioni (anche se diverso nella sostanza…) oggi reclamano con forza di annullare quello proposto oggi…evidentemente ci sono questioni sottili che tendono a sfuggire alla mia comprensione.
D’altra parte ritengo di non avere la giusta preparazione culturale e politica per vedere tutte le sfumature di una riforma simile e come credo di non essere in grado di valutare con la giusta criticità la situazione, sono anche convinto che una parte enorme della popolazione è parimenti non in grado di comprendere esattamente quello che stiamo andando a decidere nel segreto della cabina elettorale.
Penso che sia bello che in un Referendum ci venga chiesto un parere diretto, ma solo se si tratta di questioni che toccano direttamente la nostra vita di tutti i giorni e su temi che possiamo tastare con mano quotidianamente: penso agli storici Referendum sull’Aborto o sul Divorzio o sulla Scala Mobile…
Viceversa le questioni più grandi, quelle che riguardano il funzionamento della macchina
dello Stato, quelle che regolano le dinamiche del Potere Legislativo, beh, credo che non dovrebbero essere demandate al popolino, proprio perché troppo sottili per essere comprese fino in fondo e quindi votate con la giusta consapevolezza; trovo che i politici, eletti e lautamente stipendiati dal popolo per gestire la “Res-Pubblica”, debbano assumersi l’onere di scelte difficili, senza scaricare sul popolo (ancora!!!) la responsabilità della decisione.
C’è grande incertezza nel popolo e il mondo politico lo sa solo confondere, ma in questo caso le possibilità sono solo un “SI” o un “NO”…il “QUASI” non ci è concesso: citando una gag di una celebre commedia musicale di Garinei e Giovannini, si potrebbe dire: “insomma, si o no? I “quasi” sono due!”
Ma entrando nel merito della questione, vorrei provare a capirci di più…e non è facile, visto che anche i numeri sembrano piegarsi al volere di chi li propone…
Il 30% in meno di Parlamentari dovrebbe tradursi in un 30% di risparmio sulle spese legate al Parlamento (non solo stipendi, ma anche tutto quanto riguarda la gestione di quella parte che verrebbe “tagliata”): solo di stipendi ogni deputato incassa quasi 14mila euro al mese (tra stipendi, diarie, rimborsi vari…), mentre un senatore circa 700 euro in più.
Moltiplicati per il numero dei Parlamentari che verrebbero tagliati si arriverebbe a un risparmio di quasi 60 milioni l’anno, quindi di circa 1 euro all’anno per ogni cittadino.
Diviso così non sembra poi molto, ma in tempi di difficoltà è pur sempre un risparmio, e apre a possibili ulteriori ottimizzazioni della spesa, visto che risparmio genera risparmio.
D’altra parte ridurre i Parlamentari significa perdere di rappresentatività dei territori…da questo punto di vista si potrebbe obbiettare che un certo cittadino milanese che gira spesso tra sagre e ospitate in TV sia stato eletto due anni fa in Calabria…e come lui molti dei “caporioni” dei partiti, beffando una norma assurda e prendendo in giro la buona fede di milioni di italiani.
SI, perché se si parla di rappresentatività vorrei che i parlamentari eletti nella mia Lombardia ci risiedessero per la maggior parte del loro tempo, la abitassero e ne vivessero ogni aspetto, altrimenti come potrebbero portare in Parlamento le problematiche del mio (del loro…) territorio? Cosa potrebbero saperne delle problematiche dei trasporti, della gestione del traffico nelle grandi città, delle difficoltà delle periferie, della salvaguardia dei beni artistici e culturali, della situazione delle scuole e delle biblioteche, della gestione del territorio agricolo o delle montagne???
Io non vorrei mai un sindaco che vive in un altro comune, uno che non “vive” le realtà associative, scolastiche, sociali, organizzative del mio comune: allo stesso modo, come posso sentirmi rappresentato da chi non sa nemmeno dove si trova la Lombardia o quali difficoltà vive ogni giorno?
Credo che la rappresentatività sia proprio questa, non altro, e se non esiste allo stato attuale delle cose e con la legge vigente e le normative attuali, beh, allora non si può perdere qualcosa che non esiste…
In tutte queste lunghe settimane di campagna elettorale ho sentito il fronte del “NO” tuonare che con questa riforma si perderebbe rappresentatività come motivo principale, ma mi sembra di averlo già sconfessato…oppure che in questo modo il Parlamento “non migliorerebbe, anzi, rallenterebbe ancora di più perché non è automatico che un Parlamento più snello si traduca in un Parlamento più efficiente”…
Beh, credo che sia un tentativo di predire il futuro, di affermare una supposta verità senza alcuna prova certa: esattamente allo stesso modo non si può affermare il contrario…
Nel 2016 sentivo i più dubbiosi del fronte del “SI” affermare che “almeno proviamo a cambiare, altrimenti restiamo sempre nel vecchiume”…non può funzionare allo stesso modo ora? Chiedo, visto che gli stessi che quattro anni fa chiedevano cambiamento ora si ancorano allo status quo…
Inoltre chi dice che i Padri Costituenti (comunisti di merda secondo qualcuno, finchè non servono per essere sbandierati all’occorrenza) stabilirono la quantità di Parlamentari che siedono oggi sugli scranni di Palazzo Montecitorio, mente sapendo di mentire, visto che la Carta del 1948 stabiliva solo le proporzioni dei rappresentanti in base alla popolazione: il numero fisso di 630 deputati e 400 senatori è stato stabilito da una legge Costituzionale del 1963.
In fin dei conti, credo che, come spesso succede nella nostra povera Italia, ci troviamo di fronte a un pastrocchio senza capo né coda, con un Referendum che dovrebbe definire la vita politica dei prossimi anni, dove non esiste una legge elettorale decente, che possa sostenere in pieno il cambiamento che si sta ora valutando. Bisognerebbe prima effettuare una legge elettorale (di cui si parla da anni da destra a sinistra senza arrivare a un dunque) che permetta di recuperare una rappresentatività territoriale VERA, dove i candidati siano espressione del popolo e non delle segreterie di partito, dove gli eletti facciano davvero l’interesse del Paese e dei cittadini…sentir dire che meno eletti significa una maggior influenza da parte dei potentati economici significa arrendersi al fatto di essere rappresentati da cialtroni e corrotti, tanti o pochi che siano, come una questione inevitabile.
NO! Dovremmo PRETENDERE di essere meglio rappresentati, su base umana e sociale, più che in termini territoriali, e che i nostri “eletti” facciano davvero l’interesse della “Res-Pubblica” con tutte le loro capacità e la massima onestà.
...ripensandoci: se davvero i parlamentari dovessero essere “rappresentativi” del popolo italiano, poveri noi…
Ma ci tocca: SI o NO???

sabato 29 agosto 2020

IL VIRUS DELLO SCIACALLAGGIO

In queste ultime settimane mi è capitato di sentire di tutto un po’, specialmente cose che non avrei mai voluto leggere. Non dopo gli strali di marzo, i cori sui balconi, gli slogan tipo “andrà tutto bene” o “ne usciremo più forti”, non dopo aver sentito chiamare “Eroi”
medici e infermieri, non dopo l’orrore vissuto a pochi chilometri da casa, non dopo aver passato giorni di paura, dopo aver visto mio padre soffrire, dopo aver passato una notte convinto di non arrivare a rivedere l’alba…
Ora mi trovo a dover leggere cose agghiaccianti, frasi, spesso sgrammaticate, che spiegano dall’alto di conoscenze enciclopediche, come tutta la situazione che si è creata nell’intero Pianeta sia una macchinazione di qualche ente superiore per bloccare il mondo e intrappolare i suoi abitanti per non si sa quale motivo.
Ora, a parte l’assurdità di uscite simili, ma la cosa ancora più imbarazzante è che a volte a rilanciare tali idee folli sono persone che vivono nella mia Bergamo, gente che ha sentito per settimane le sirene delle ambulanze suonare h24, gente che ha visto i camion militari portare via i morti, gente che ha letto per giorni 13 pagine di necrologi (a fronte delle 3 o 4 normali), persone che hanno vissuto senza aver accesso agli ospedali perché fonti di contagio, uomini e donne che hanno pianto nonni o genitori morti con un tubo in gola o “affogati” nel proprio letto o sterminati come mosche nelle case di riposo.
Ebbene, questo non lo posso accettare: se arrivo a capire che chi ha vissuto a centinaia di chilometri dalle zone più infette possa non avere la stessa percezione dell’enormità di quanto accaduto, non posso sopportare  che chi l’ha vissuto sulla propria pelle, convinto da insane idee di chissà quali complotti o sobillato da seminatori di menzogne per menti deboli, riesca a rinnegare il proprio stesso vissuto.
L’incredibile l’ho letto in un post scovato su un social che parla di una enorme messa in scena, nella quale i sedicenti parenti delle vittime non erano altro che attori messi li per reggere la “commedia”, in una Bergamo trasformata in un enorme set cinematografico.
Ora, a parte l’incredibile e assurdo pensiero che si chiude dicendo che il CoVid non esiste ed è solo la scusa per distrarci mentre arrivano i clandestini infetti che ci infetteranno tutti (!!!), chi conosce un po’ Bergamo e la sua gente non può che mettersi a ridere di fronte a pensieri simili (ecco perché è assurdo che un bergamasco possa seguire determinati pensieri malati).
I bergamaschi sono un popolo di gente schiva, chiusa, timida, più a suo agio nella laboriosità intensa che nelle manifestazioni di gioia o dolore. I sentimenti, quelli che aprono il cuore, quelli che rendono nudi di fronte agli altri, sono manifestazioni molto intime, da non mostrare se non nel chiuso dei propri affetti.
Raramente si potranno vedere bergamaschi fare sceneggiate da lacrime e capelli strappati: più facile vederli con gli occhi lucidi e qualche singhiozzo rivestito di un pudore dolce e infantile.
Quante interviste ci sono state negli scorsi mesi tra Bergamo, Alzano e Nembro? Quanta gente avete visto piangere a scena aperta? Addirittura, quante persone si sono concesse alle telecamere? Molto poche, perché i bergamaschi sono così, e il dialetto, la “lingua madre” del popolo orobico, è li a testimoniarlo, visto che, ad esempio, non esiste una traduzione effettiva per l’espressione “Ti Amo”…al massimo da queste parti esiste il “Ta öle bé”, ti voglio bene, detto spesso a testa bassa, con tutto il pudore necessario.
Allo stesso modo, visto che ho sentito parlare di attori ben preparati nel piangere davanti alle telecamere, si sappia che in dialetto non esiste nemmeno un termine per la parola “Piangere”: a volte si dice impropriamente “Piàns”, ma è più corretto tradurlo con “Lücià”, o “Löcià”, che evoca i “Lucciconi”, quelle lacrime che tentano di uscire dagli occhi quando si vuole trattenere il pianto.
Questo è il pianto dei bergamaschi: un magone violento ben disciplinato dalla volontà di ferro di un popolo cresciuto nella durezza della vita sui monti e del crudo lavoro della terra, abituato a voltare pagina con pudore e umiltà.
Bergamo ha avuto 6000 morti solo nel mese di marzo, compresi 40 sacerdoti, 163 medici e 40 infermieri, persone che hanno contratto il virus per non aver voluto lasciare il proprio posto nella battaglia in difesa delle persone. Giusto per capire l’entità di tale orrore, in un mese di contagio Bergamo ha avuto 10 volte le vittime dei terremoti de L’Aquila e di Amatrice messi insieme, e come è un’oscenità mancare di rispetto a quelle vittime non vedo perché qualcuno possa uccidere una seconda volta i nostri genitori, nonni, amici, colleghi, in nome di un’ideologia malata e sconvolta, a sostegno di seminatori di bufale, di odio, di ignobili falsità…
Chiunque tenti di minimizzare quanto accaduto, chiunque metta in dubbio anche solo uno di coloro che hanno perso la vita in quelle settimane di terrore, chiunque possa ignorare il dolore di chi ha visto andar via per sempre un proprio caro senza poterlo salutare, senza potergli stare accanto, non può essere definito che con un unico appellativo, un termine che descrive perfettamente chi nutre sé stesso con le carni degli altri, una parola che racconta di chi persegue il proprio insano pensiero calpestando senza problemi il dolore degli altri, un’espressione che parla di meschinità, falsità, disonore: “Sciacallo”!

giovedì 16 luglio 2020

16 LUGLIO 1950, RIO DE JANEIRO

16 luglio 1950: si gioca una partita destinata a diventare un brandello di storia.
Siamo a Rio de Janeiro, all’Estádio Jornalista Mário Filho nel quartiere di Maracanã, da poco inaugurato e affollato da una folla sterminata (le fonti parlano di quasi 200mila spettatori).
In campo si affrontano la nazionale brasiliana e quella uruguayana, nell’ultima partita del girone finale, di un mondiale, l’unico in cui non era prevista una finale vera e propria, ma un girone conclusivo con titolo mondiale assegnato alla vincitrice dello stesso.
E’ il primo mondiale disputato dopo il tritacarne della Seconda Guerra Mondiale, con numerose ferite ancora aperte in tutto il pianeta: l’assegnazione al Brasile aveva molti significati, ma principalmente serviva un Paese poco colpito dal conflitto. Per i brasiliani diventa l’occasione di mostrare al Mondo il proprio Paese che, allora come oggi, è un concentrato di bellezza e povertà, sorrisi e problemi; ma soprattutto, dopo ben tre delusioni, diventa l’occasione di vincere un titolo mondiale, perché, allora come oggi, gli auriverdes si sono sempre considerati patria morale del football, curiosamente poco vincenti nonostante i grandi campioni espressi fin li.
Già nella prima edizione dell’allora “Coppa Rimet”, giocata proprio in Uruguay per celebrare il centenario dell’indipendenza del Paese (non a caso fu costruito l’Estadio Centenario di Montevideo in quell’occasione), i brasiliani, convinti di poter concorrere fino alla fine per la vittoria, subirono una cocente delusione: nonostante potessero schierare ottimi elementi, in particolare il bomber Araken, furono battuti nella prima fase dalla Jugoslavia di Ivan Bek e Sekulić, finendo subito eliminati.
Nell’edizione italiana del 1934 un sorteggio complicato li costrinse ad affrontare la Spagna del favoloso portiere Zamora e nonostante un gol del “Diamante Nero” Leônidas finì sconfitto ed eliminato al primo turno. Meglio andrà nell’edizione del torneo francese 4 anni dopo, ma un grande risultato si trasformò in fallimento: i brasiliani, convinti di vincere il mondiale, dopo un cammino più che mai accidentato (un incredibile 6-5 ai supplementari al debutto contro la Polonia, una vittoria di misura, in rimonta, sulla Cecoslovacchia alla ripetizione dopo l’1-1 della prima sfida…) incrociano in semifinale l’Italia e, per meglio prepararsi alla finale, lasciano a riposo il Bomber Leônidas e il regista Tim, venendo così sconfitti da Meazza &C. Il terzo posto finale e il titolo di capocannoniere al suo Bomber non soddisfano la torcida.
Così nel 1950 si fanno le cose in grande: il Mondiale di casa appare l’occasione perfetta e i primi risultati sembrano incoraggiare un destino già scritto…4-0 al Messico e 2-0, vendetta-tremenda-vendetta, alla Jugoslavia, ma anche un sorprendente 2-2 contro la Svizzera del bomber Jacques Fatton: i segnali di una certa fragilità difensiva mostrata contro gli elvetici, però, furono ignorati, sepolti dalla grande capacità di fuoco dei suoi attaccanti.
Come detto, la fase finale, prevede un girone all’italiana e gli auriverdes si scatenano: 7-1 alla Svezia di Hasse Jeppson e Skoglund che aveva fatto fuori l’Italia bi-campione in carica, 6-1 alla Spagna di Basora, Zarra e Luis Molowny leggenda del Grande Real che aveva steso i “Maestri” inglesi.
L’ultima, e decisiva, sfida è contro l’Uruguay che, invece, si è fatto largo con fatica fino a quell’appuntamento: dopo la facile vittoria nella prima fase sulla Bolivia (in un girone rimasto orfano delle altre due squadre, Turchia e Scozia, ritiratesi, così come la Francia, chiamata in sostituzione ma ritiratasi a sua volta…), soffre contro la Spagna acciuffando il pareggio nel finale, mentre contro la Svezia il 3-2, sempre in rimonta, arriva grazie alla doppietta del bomber del Peñarol Óscar Míguez.
Nell’ultima sfida contro il Brasile, l’Uruguay deve assolutamente vincere, mentre ai padroni di casa basta un pareggio, ma non si trova nessuno che sarebbe pronto a scommettere un penny sul pareggio o, peggio, sulla vittoria della “Celeste”. Peraltro l’Uruguay non ha mai perso una partita mondiale, avendo vinto la prima edizione da imbattuto, avendo saltato le due edizioni successive e non avendo mai perso in quell’edizione.
In tutto il Brasile si inizia a festeggiare con un carnevale improvvisato: vengono vendute 500mila magliette con scritto Brasil campeão 1950, la federcalcio brasiliana premia i giocatori con preziosi orologi con la scritta “Ai campioni del Mondo”, una fila di Limousine ciascuna con il nome di uno dei calciatori era pronta a portare in trionfo la squadra…
Ci pensa il capitano uruguagio, cervello della squadra, Obdulio Varela a caricare i suoi, a isolarli dal clima che li vuole vittime sacrificali sull’altare del successo auriverde.
Forti di campioni come Ademir, Chico, Bauer, Zizinho, Jair, i brasiliani si buttano all’assalto degli avversari che chiudono bene e con ordine, concedendo poco agli scatenati padroni di casa.
All’inizio del secondo tempo Friaça sfrutta un assist di Ademir e batte Maspoli in diagonale.
La Torcida Brasileira si scatena ma a questo punto, paradossalmente, si decide la sconfitta dei favoriti: Varela, sempre lui, raccoglie il pallone e corre dall’arbitro per protestare, in realtà senza alcun motivo. L’arbitro inglese Reader (primo inglese ad arbitrare una finale mondiale, seppur questa formalmente non lo era, e arbitro più vecchio di sempre a farlo, con i suoi 53 anni e 236 giorni…curiosamente Reader aveva arbitrato la prima partita di entrambe le squadre…) lo sta ad ascoltare e discute per diversi minuti ma naturalmente non si lascia convincere. Con questa azione Varela ha potuto stroncare il ritmo degli avversari, limitare l’entusiasmo di giocatori e pubblico: ha inventato la revisione VAR che lascia in sospeso l’esultanza.
Alla ripresa del gioco la manovra dei brasiliani appare più lenta, meno fluida, forse anche più stanca e la “Celeste” ne approfitta per manovrare col baricentro più alto e al minuto 66 Alcides Ghiggia sulla sinistra salta Bigode, centra per Schiaffino che non da scampo a Barbosa: è l’1-1 che, pur premiando i brasiliani, mette un’improvvisa paura nel cuore del Maracanã.
Il minuto della storia è il 79°: ancora Ghiggia, stavolta a destra, si accentra e vede tre compagni ben piazzati in area ma vede anche Barbosa che, prevedendo il cross, si sposta lasciando sguarnito il primo palo: l’uruguagio beffa il portiere del Vasco Da Gama e porta in vantaggio i suoi.
La situazione diventa surreale, con 200mila spettatori muti, con i calciatori brasiliani che tentano di pareggiare ma che faranno solo una gran confusione contro l’organizzatissimo Uruguay e al triplice fischio un Paese intero precipita nello sconforto: le cronache parlano di una decina di infarti, di gente in lacrime, di tifosi in preda a deliri, addirittura alcuni suicidi…il silenzio surreale è rotto soltanto dalle sirene delle ambulanze.
La cerimonia di premiazione doveva essere sontuosa, addirittura il presidente della FIFA Jules Rimet aveva preparato un discorso in portoghese per omaggiare i campioni: invece tutte le autorità abbandoneranno lo stadio senza una parola, mentre Rimet, scorto il capitano della squadra campione gli consegna la Coppa con una stretta di mano e nemmeno una parola di complimenti.
In Brasile verranno proclamati tre giorni di lutto nazionale e alla fine sarebbero stati certificati 34 suicidi e 56 morti per arresto cardiaco in tutto il Paese. Il commissario tecnico Flávio Costa, minacciato, fuggì in Portogallo per diversi anni, mentre il portiere Barbosa, sarà condannato a vita come responsabile della sconfitta, cadendo in depressione e morendo dopo decenni di ignominia.
E’ il Maracanazo…era il 16 luglio 1950…

mercoledì 15 luglio 2020

UNA BUSTA DI SPERANZE E DELUSIONI

Amantea è una splendida cittadina sul Tirreno, con una Rocca interessante, con la Sila alle spalle a incorniciare un paesaggio blu di mare…è un luogo tranquillo, con meravigliose pasticcerie, accoglienti ristoranti…con persone gentili e disponibili…ho ottimi ricordi dei miei soggiorni li, seppur brevi…
Sono rimasto stupito, dico la verità, quando ho sentito delle proteste dei cittadini amanteani nei confronti di un gruppo di immigrati trasferiti in un edificio del paese.
Ammetto anche di essere stato un po’ deluso: sarà forse un luogo comune, ma mi sono sempre sentito dire come noi del nord, ancora di più i bergamaschi, siamo gente fredda, schiva, poco propensa al calore nei rapporti e all’accoglienza nei confronti di chi arriva “da fuori”…e tutto sommato è vero…ma ho sempre anche sentito gente del sud affermare con orgoglio, invece, del loro calore, il loro carattere solare, la loro accoglienza praticamente totale…
Ebbene, le notizie che arrivavano domenica dalla Calabria mi hanno lasciato un po’ così…però ho voluto provare ad approfondirle e a ragionarci con la mia capoccia.
Innanzitutto ho visto un “assembramento” di un centinaio di persone che si lamentavano, poi un servizio del TG mostrava nella sala teatrale una riunione in cui la commissione prefettizia spiegava la decisione e la gestione dell’operazione: li c’erano una quarantina di persone piuttosto agguerrite.
Io non so se tutte le persone che io ho visto protestare siano proprio di Amantea (ricordo qualche anno fa una protesta simile in un paese vicino al mio dove molti dei “ribelli” erano dei paesi limitrofi) e mi chiedo anche se la presenza delle telecamere abbia influito a regalare qualche minuto di notorietà a qualche bellimbusto.
Di certo si può fare una valutazione numerica: ammesso che quelli che ho visto io fossero persone diverse tra le proteste all’aperto e quelli al teatro, sono un centinaio, più una quarantina; ammesso che io li abbia  sottodimensionati, potrei anche raddoppiarli, arrivando a 280 persone.
Facciamo che chi era in strada era solo una parte degli “scontenti”, raddoppiamo ancora i numeri, arrivando a 560 persone in rivolta per la situazione; ebbene, Amantea conta più di 14mila abitanti: questo significa che meno di un venticinquesimo degli abitanti era in protesta, quindi sentire i telegiornali che parlano di “Paese in rivolta” è quantomeno grottesco.
Aggiungo che nelle immagini e nei video che girano, si vedono molti dei “ribelli” assembrati senza mascherina, o con la stessa posizionata male (tipo a mò di girocollo, che è come non averla…come girare in moto con il casco sul braccio…), ed è piuttosto curioso, visto che per non dire che non apprezzavano il colore della pelle dei migranti, lamentavano il fatto che fossero positivi al CoVid, ancorché asintomatici: se c’è paura di una malattia si cerca di usare tutte le armi per prevenirla, mi sembra.
Amantea, tra l’altro, ha una percentuale bassissima di immigrati (circa 300 persone, poco più del 2% della popolazione), quindi non posso pensare che la gente possa sentirsi “esausta” di chissà quale situazione.
Dopo un paio di giorni gli “ospiti” sono stati mandati al Celio, l’ospedale militare: mentre salivano sul pullman che li portava via, ognuno, al posto di lussuose valigie, con una busta di nylon con dentro le loro povere cose, tutto ciò che rimane loro, sembrava impossibile non pensare alla vita di ciascuno di loro, lontani da casa, in cerca di una speranza di vita migliore per loro e per le loro famiglie…lontani dagli affetti, dalle famiglie, dagli amici, scacciati e reietti come mostri, in silenzio e a capo chino, non hanno reagito all’odio che è stato versato loro addosso, non hanno sbraitato, urlato, insultato come hanno, invece, visto fare negli ultimi giorni: sembrerà assurdo, ma hanno “porto l’altra guancia”, loro, provenienti da un Paese islamico, ci hanno dato una lezione di Vangelo, prima di andarsene.
Ora c’è da scommetterci che sulla vicenda scenderà il tragico silenzio stampa, quello che arriva dopo le urla esagerate di una notizia-non-notizia che serve solo a qualcuno e cannibalizza ogni cosa.
Quello che rimarrà saranno due immagini: la prima vede gli immigrati che risalgono sul pullman con un sacchetto pieno di speranze e delusioni, la seconda è quella che condannerà Amantea a essere identificata come la città che non ha accolto, che ha scacciato, che ha rifiutato.
Penso che sia beffardo il fatto che una città che si chiama AMAntea sia passata alle cronache per un episodio di intolleranza, di xenofobia, di inumanità, anche se continuo a sperare che la stragrande maggioranza degli AMAnteani abbia mantenuto fede alla propria origine.
Sant’Agostino, nordafricano accolto con favore a Roma, diceva “AMA e fa ciò che vuoi”: sarebbe bello ricordarcene, ogni tanto…

mercoledì 13 maggio 2020

LA PIETRA DEL NOSTRO SCANDALO

Cara Silvia, o come ti chiami ora, Aisha…
Mi spiace dirti che ci hai tradito! Si, hai tradito le nostre tradizioni, le nostre idee, la nostra religione, il nostro pensiero riguardo al mondo che tu ora hai abbracciato…ma forse è un
pensiero che noi abbiamo riguardo al mondo intero, tutto quel vasto mondo che noi ci rifiutiamo di conoscere, di incontrare, di accettare, di rispettare…
Quando sei scomparsa, rapita da gente indegna, che pur avendoti vista sorridente aiutare i “loro” figli, ha individuato in te la possibilità di un guadagno tutto sommato facile, non sei stata una gran notizia…e poi questi li abbiamo dimenticati, di loro non ce ne frega niente: non sappiamo nemmeno che sei stata rapita in Kenya, Paese dove molti di noi vanno a svernare sulle affascinanti spiagge di Malindi, nei magici Safari con veduta del Kilimangiaro sullo sfondo, magari per fare del sano turismo sessuale…perché gli africani fanno schifo, ma le africane, specie se giovani, magari bambine, hanno il loro perché…
E non sappiamo nemmeno che i tuoi rapitori sono già stati catturati (almeno alcuni di loro) e sono ora sotto processo, cosa non secondaria a quelle latitudini…non sappiamo chi ti ha rapito ma sappiamo tutto, o meglio, pretendiamo di sapere tutto, su chi ti ha segregata per 18 mesi in luoghi infami, con trasferimenti snervanti e una prigionia che avrebbe fiaccato chiunque…
Ma questo non ce lo dovevi fare: non dovevi tornare!!! Avresti dovuto restare la, morire, ammazzata o di percosse, avresti dovuto subire violenze inenarrabili per 18 mesi, avremmo dovuto trovare il tuo corpo martoriato…avremmo dovuto vedere un video di qualche bestia che ti decapitava senza pietà…
O al limite avresti dovuto tornare distrutta, violentata, magari gravida…il tuo bel sorriso spento per sempre dall’orrore subìto…avresti dovuto raccontare una storia in cui i tremendi musulmani che ti hanno segregato hanno approfittato di te, ti hanno percosso, torturato, magari infibulato, ti hanno costretto ad abbracciare la loro fede perversa…dalla tua bocca avrebbero dovuto uscire parole di odio, di orrore…
E’ questo quello che ci saremmo aspettati, anzi, che abbiamo sperato…almeno noi che della tua scomparsa ce ne siamo sempre fregati e al tuo ritorno abbiamo scoperto di sapere tutto sulla Somalia, su Al-Shaabab, sugli usi e i costumi di un gruppo di guerriglieri che si barrica dietro le insegne di Maometto ma che non disdegna di essere sostenuto e armato dall’Arabia Saudita, massimo e miglior alleato delle potenze occidentali nel mondo arabo…
Eh, già: solo il tuo dolore, la tua prostrazione, l’orrore che avresti dovuto vivere, avremmo potuto accettarli…sarebbero stati l’ennesima prova di cui avevamo bisogno per dare nuova linfa al nostro odio nei confronti del mondo islamico, nei confronti del mondo in generale, noi che temiamo e detestiamo tutto ciò che non è bianco, cristiano, italiano…
Ti avremmo sacrificato volentieri per mantenere il nostro xenofobo status quo: nero, islamico, terrorista, stupratore, assassino…sostanzialmente ognuno di questi appellativi nella nostra piccola mente è sinonimo degli altri, non può vivere da solo, come un mostro multicefalo ma dal corpo unico: quello del nemico da temere e combattere, ad ogni costo!!!
Avremmo sacrificato volentieri la tua vita, il tuo sorriso, la tua giovinezza pur di avere nuovo odio per loro…avremmo lasciato i tuoi sogni in pasto agli orrendi terroristi somali pur di poter urlare la loro disumanità…avremmo ceduto il tuo corpo alla violenza di quei criminali per poter ripetere nella nostra saggezza che quelle bestie non si fanno problemi a profanare il corpo di una fanciulla, una ragazza dolce, bianca, italiana, cristiana…
Allora avremmo pianto una nostra figlia, allora avremmo urlato che eri il meglio di noi e quegli animali sono indegni della vita!
Per questo non possiamo perdonarti: tu hai avuto la sfacciataggine di dire che sei stata trattata con umanità, che non sei stata violentata, che il cammino che hai scelto di percorrere è stata una tua libera scelta…
Così facendo hai castrato il nostro maschilismo, che immagina i tuoi aguzzini intenti a sfogare su di te i loro istinti sessuali, hai umiliato il nostro “machismo” perché questa possibilità a noi resta misteriosa: noi siamo convinti che tu “ti sia divertita”, che tu “ti sia presa tanti bei cazxi nexri” perché noi al posto loro l’avremmo fatto…è il principio per il quale il giudizio su un’altra persona passa attraverso quello che ognuno di noi vive e pensa…
E allora, invece di lasciarci conquistare da un sorriso che, probabilmente, è rimasto per 18 mesi in attesa di schiudersi, abbiamo continuato nel nostro squallido voyeurismo da frustrati, guardando il tuo vestito (che subito abbiamo classificato come abito tipico dei terroristi che ti avevano imprigionato), scrutando sotto di esso per capire se fossi incinta, con l’illusione di poter scoprire i segni degli stupri a cui sarai di certo stata sottoposta…
Ecco perché oggi non ti perdoniamo per la tua sfacciataggine: non perdoniamo il tuo sorriso, l’abbraccio alla tua famiglia, le parole di gratitudine, la serenità di aver passato un’esperienza che avrebbe martoriato ciascuno di noi…non ti perdoniamo perché tu sei tutto quello che a noi manca: gioia, altruismo, coraggio, spensieratezza, fede, amore, intelligenza…
La figlia della nostra Italia, che avremmo salutato con le lacrime se avesse recitato fino in fondo la parte dell’Agnello Sacrificale sull’altare del nostro odio, è diventata Pietra di Scandalo per essere sopravvissuta, per averci raccontato di tanta paura ma anche di tanta speranza…
Cara Aisha: bentornata nell’Italia del nostro livore…

lunedì 4 maggio 2020

LA SPINTA PER CAMBIARE

Chissà se stare reclusi per svariate settimane, oltre a rallentare la diffusione del peggior virus mai visto dopo la “Spagnola” di 100 anni esatti fa, è anche servito per insegnarci qualcosa…
Potrebbe averci fatto riscoprire una forma di vita “casalinga” che le nostre abitudini frenetiche ci avevano fatto dimenticare…ci ha aiutato a riscoprire la magia del pane fatto in casa, ci ha insegnato la pazienza dell’attesa…
Ci ha spinto a incazzarci, a ribellarci, a gridare la rabbia di una presunta ingiustizia subìta, spesso contro le persone sbagliate…abbiamo imparato parole che non avremmo mai voluto conoscere, abbiamo seguito molti più telegiornali di quanto eravamo abituati…
Abbiamo scoperto di essere fragili, esposti all’azione di una creatura che nemmeno vediamo, e di cui ignoravamo completamente l’esistenza…fino a tre mesi fa ci sentivamo padroni del mondo, superuomini, indistruttibili…ora abbiamo incontrato la paura, questa forza profondamente umana che trascende ogni cosa: la paura di non resistere alla quarantena, di non farcela di fronte al virus, di ammalarci in un momento in cui gli ospedali non hanno la forza di curare tutti…la paura di vedere andar via i nostri genitori, i nostri nonni, di non poterli salutare, di non poter stringere le loro mani mentre lasciano questa vita…
Magari abbiamo riscoperto la bellezza di poter respirare l’aria fresca di una giornata limpida dopo giorni di quarantena…magari uscire dopo tanto tempo ci ha fatto scoprire che l’erba sul sentiero che percorrevamo sempre ha continuato a crescere incurante di noi…magari ci siamo scoperti emozionati da un semplice fiore di campo che normalmente avremmo ignorato, forse non ci saremmo soffermati a guardare la curiosa forma di un albero che abbiamo visto centinaia di volte…
Chissà, magari questa quarantena ha avuto un senso, ci ha regalato un insegnamento, ci ha spinto a cambiare…in meglio? In peggio?
Starà a noi deciderlo…magari guardandoci attorno con occhi nuovi, con lo stupore di un bambino, per vedere il mondo attorno a noi come merita di essere osservato e vissuto.

venerdì 10 aprile 2020

IL BICCHIERE DELLA STAFFA

 
Hai presente quelle serate che ci facevamo un tempo, quando eravamo giovani? Serate che iniziavano con un aperitivo al bar Piacere, dove cominciare a prendersi per il culo e a fare il “fondo” alcoolico…serate che continuavano con il trasferimento verso il ristorante, di solito una trattoria di quelle lorde, di quelle dove mangiare, bere, fare casino senza troppi problemi…posti fatti di suino alla brace, di salame nostrano, di vino pestone…di padelle e utensili appesi al soffitto, di un camino acceso, di camerieri truci…
Posti dove sembrava di entrare nella cucina della “sciùra” di turno, dove il dolce era la crostata del discount, dove non mancava mai la grappa per digerire…dove si usciva pagando una quota fissa, anni luce prima che i geni della ristorazione si inventassero i menu a prezzo fisso o gli “All you can it” di prodotti orientali…
Erano quelle serate dove gli spostamenti in macchina erano avventurosi, più allegri di un corteo nuziale, “funestati” dalle improvvise incursioni degli Omarone-Show, dove si rischiava la denuncia per fare uno scherzo, dove c’era sempre il personaggio che era preso di mira (a volte con pezzi di pane o ossa di costine…)…serate che proseguivano con un “digestivo” in qualche locale dove recuperare un minimo di dignità, ma che più spesso significava completare il quadro dell’indecenza…serate dove nessuno era più in grado di guidare e c’era sempre qualcuno che, chissà come, riusciva a portare a casa gli altri…serate che, pensandoci col senno di poi, hanno rappresentato rischi che oggi nessuno di noi si assumerebbe più, serate che con le leggi attuali ci avrebbero messo nei guai…
Si, eravamo giovani e incoscienti e magari la mattina seguente, dopo rari momenti di riposo agitato e ancora con l’occhio “porcino” a far bella mostra di sé, ci si ritrovava insieme al lavoro, con una sensazione di disagio nemmeno troppo mascherata ma con la serenità di sentirsi invincibili…
Ebbene, in quelle serate ho imparato, tra tante cose strane, che il vino è traditore, rispetto, ad esempio, alla birra, nell’eterno derby dei brindisi in compagnia…
Quando bevi birra succede che, a un certo punto, senti il cervello mancare qualche colpo, perdersi in pensieri curiosi: è il momento in cui inizi a perdere lucidità.
In questa situazione si è chiamati a una decisione: continuare o fermarsi.
L’uomo assennato a quel punto si ferma e da li in poi, se non assume più alcool, inizia a riprendersi e nel giro di pochi minuti, ore a volte, è completamente lucido (attenzione, niente a che fare con il valore riscontrabile attraverso un etilometro…parlo di lucidità di cervello, nessuna implicazione sui riflessi…).
Con il vino, invece, succede una cosa differente: quando ti rendi conto che stai iniziando a perdere lucidità, ebbene caro ragazzo, ti svelo questa verità: è troppo tardi!!!
L’effetto di quanto hai bevuto non è ancora arrivato completamente al tuo cervello: probabilmente la seconda metà di quanto hai ingerito non è ancora in circolo ed è li che inizia il dramma, perché nonostante tu ti sia fermato, l’alcool continua a invadere i tuoi sensi in modo sempre più incisivo fino a spedirti in una dimensione che trascende la realtà, che spesso fa star male (specie se il vino è di infima qualità…).
In questi giorni di emergenza, nei quali ci viene richiesta solo un po’ di pazienza per superare questo dramma epocale chiamato Corona Virus, oppure CoVid19, stiamo assistendo a una sbornia collettiva di gente che ad ogni costo vuole uscire, persino gente che ha la forma del divano di casa da 20 anni si è riscoperta runner competitivo…gente che all’idea di portar fuori il cane si sarebbe suicidata oggi non vede l’ora di far fare a Fufi i propri bisogni anche 6/7 volte al giorno…gente che si lamentava di dover andare al lavoro oggi non vede l’ora che riapra la ditta, solo per il gusto di uscire di casa…
E dopo tre settimane, nell’imminenza della Pasqua, anche di fronte ad alcune “modifiche alle disposizioni”, all’improvviso, un sacco di gente si è sentita autorizzata a farsi bellamente i fatti propri, uscendo come e se vuole, con o senza mascherina, per motivi seri o no…gente che va a fare la spesa ogni giorno per comprare due cose, gente che entra 4/5 volte al giorno nello stesso supermercato, gente che si muove con la stessa facilità di tre mesi fa, solo con la mascherina, come se con quella fosse tutto risolto, spesso con mascherine da dentisti, come prevenire le botte in testa con un berretto di lana invece che con un casco.
Il problema, però, è che questo maledetto virus non è birra, bella, spumosa, dorata…è vino rosso, ruvido, legnoso…e come il vino impiega più tempo per fare effetto.
Oggi potrebbero uscire tutti e non avremmo risultati concreti a livello statistico…e così per i prossimi 15 giorni (tempo massimo di incubazione, secondo i dati scientifici utilizzati fino ad oggi)…e tutti saremo felici e diremo che si può fare, che non cambia nulla, che ci hanno “imprigionato” senza motivo, che il Governo ancora una volta ci ha fregato, che siamo liberi e sani, che il virus era una bufala, che era un complotto dei Rothschild per prendere il potere, che serviva una distrazione per distogliere l’attenzione dalle scie chimiche e dalla verità della terra piatta che stava per essere svelata…
E ci abbracceremo, convinti che tutto è finito, torneremo a camminare, ad affollare le città, i bar, i ristoranti, torneremo sulle spiagge, viaggeremo in capo al mondo, ci strozzeremo di aperitivi…
Poi…poi il sedicesimo giorno arriverà l’effetto della follia del primo, ci accorgeremo di aver bevuto troppo vino ma sarà tardi per fermarci: e sarà solo una goccia della tempesta che si scatenerà, sarà solo un granello di sabbia nella frana che ci travolgerà, sarà solo un refolo di vento del ciclone che ci spazzerà via…
Perché ogni giorno trascorso avrà fatto crescere in modo esponenziale il contagio e allora capiremo, forse, l’errore commesso, ma smettere di bere non basterà più.
Se siamo una razza che vuole definirsi evoluta dovremmo imparare dalla storia, come affrontare momenti difficili a livello planetario, ma basterebbe anche essere un po’ meno evoluti e imparare dalle piccole esperienze quotidiane, come la reazione del cervello a un bicchiere di vino…il problema è che siamo ignoranti e, ancor peggio, arroganti, convinti di essere inattaccabili e immortali…
Ebbene, o impariamo rapidamente e ci evolviamo o siamo destinati all’estinzione, ma lo faremo con il sorriso sulle labbra e le guance rosse per il vino bevuto…prosit!!!