In queste ultime settimane mi è capitato di sentire di tutto
un po’, specialmente cose che non avrei mai voluto leggere. Non dopo gli strali
di marzo, i cori sui balconi, gli slogan tipo “andrà tutto bene” o “ne usciremo
più forti”, non dopo aver sentito chiamare “Eroi”
medici e infermieri, non dopo
l’orrore vissuto a pochi chilometri da casa, non dopo aver passato giorni di
paura, dopo aver visto mio padre soffrire, dopo aver passato una notte convinto
di non arrivare a rivedere l’alba…
Ora mi trovo a dover leggere cose agghiaccianti, frasi,
spesso sgrammaticate, che spiegano dall’alto di conoscenze enciclopediche, come
tutta la situazione che si è creata nell’intero Pianeta sia una macchinazione
di qualche ente superiore per bloccare il mondo e intrappolare i suoi abitanti
per non si sa quale motivo.
Ora, a parte l’assurdità di uscite simili, ma la cosa ancora
più imbarazzante è che a volte a rilanciare tali idee folli sono persone che
vivono nella mia Bergamo, gente che ha sentito per settimane le sirene delle
ambulanze suonare h24, gente che ha visto i camion militari portare via i
morti, gente che ha letto per giorni 13 pagine di necrologi (a fronte delle 3 o
4 normali), persone che hanno vissuto senza aver accesso agli ospedali perché fonti
di contagio, uomini e donne che hanno pianto nonni o genitori morti con un tubo
in gola o “affogati” nel proprio letto o sterminati come mosche nelle case di
riposo.
Ebbene, questo non lo posso accettare: se arrivo a capire
che chi ha vissuto a centinaia di chilometri dalle zone più infette possa non
avere la stessa percezione dell’enormità di quanto accaduto, non posso
sopportare che chi l’ha vissuto sulla
propria pelle, convinto da insane idee di chissà quali complotti o sobillato da
seminatori di menzogne per menti deboli, riesca a rinnegare il proprio stesso
vissuto.
L’incredibile l’ho letto in un post scovato su un social che
parla di una enorme messa in scena, nella quale i sedicenti parenti delle vittime
non erano altro che attori messi li per reggere la “commedia”, in una Bergamo
trasformata in un enorme set cinematografico.
Ora, a parte l’incredibile e assurdo pensiero che si chiude
dicendo che il CoVid non esiste ed è solo la scusa per distrarci mentre
arrivano i clandestini infetti che ci infetteranno tutti (!!!), chi conosce un
po’ Bergamo e la sua gente non può che mettersi a ridere di fronte a pensieri
simili (ecco perché è assurdo che un bergamasco possa seguire determinati
pensieri malati).
I bergamaschi sono un popolo di gente schiva, chiusa,
timida, più a suo agio nella laboriosità intensa che nelle manifestazioni di
gioia o dolore. I sentimenti, quelli che aprono il cuore, quelli che rendono
nudi di fronte agli altri, sono manifestazioni molto intime, da non mostrare se
non nel chiuso dei propri affetti.
Raramente si potranno vedere bergamaschi fare sceneggiate da
lacrime e capelli strappati: più facile vederli con gli occhi lucidi e qualche
singhiozzo rivestito di un pudore dolce e infantile.
Quante interviste ci sono state negli scorsi mesi tra
Bergamo, Alzano e Nembro? Quanta gente avete visto piangere a scena aperta?
Addirittura, quante persone si sono concesse alle telecamere? Molto poche, perché
i bergamaschi sono così, e il dialetto, la “lingua madre” del popolo orobico, è
li a testimoniarlo, visto che, ad esempio, non esiste una traduzione effettiva
per l’espressione “Ti Amo”…al massimo da queste parti esiste il “Ta öle bé”, ti
voglio bene, detto spesso a testa bassa, con tutto il pudore necessario.
Allo stesso modo, visto che ho sentito parlare di attori ben
preparati nel piangere davanti alle telecamere, si sappia che in dialetto non
esiste nemmeno un termine per la parola “Piangere”: a volte si dice
impropriamente “Piàns”, ma è più corretto tradurlo con “Lücià”, o “Löcià”, che
evoca i “Lucciconi”, quelle lacrime che tentano di uscire dagli occhi quando si
vuole trattenere il pianto.
Questo è il pianto dei bergamaschi: un magone violento ben disciplinato dalla volontà di ferro di un popolo cresciuto nella durezza della vita sui monti e del crudo lavoro della terra, abituato a voltare pagina con pudore e umiltà.
Questo è il pianto dei bergamaschi: un magone violento ben disciplinato dalla volontà di ferro di un popolo cresciuto nella durezza della vita sui monti e del crudo lavoro della terra, abituato a voltare pagina con pudore e umiltà.
Bergamo ha avuto 6000 morti solo nel mese di marzo, compresi
40 sacerdoti, 163 medici e 40 infermieri, persone che hanno contratto il virus
per non aver voluto lasciare il proprio posto nella battaglia in difesa delle
persone. Giusto per capire l’entità di tale orrore, in un mese di contagio
Bergamo ha avuto 10 volte le vittime dei terremoti de L’Aquila e di Amatrice
messi insieme, e come è un’oscenità mancare di rispetto a quelle vittime non
vedo perché qualcuno possa uccidere una seconda volta i nostri genitori, nonni,
amici, colleghi, in nome di un’ideologia malata e sconvolta, a sostegno di
seminatori di bufale, di odio, di ignobili falsità…
Chiunque tenti di minimizzare quanto accaduto, chiunque metta
in dubbio anche solo uno di coloro che hanno perso la vita in quelle settimane
di terrore, chiunque possa ignorare il dolore di chi ha visto andar via per
sempre un proprio caro senza poterlo salutare, senza potergli stare accanto,
non può essere definito che con un unico appellativo, un termine che descrive
perfettamente chi nutre sé stesso con le carni degli altri, una parola che
racconta di chi persegue il proprio insano pensiero calpestando senza problemi
il dolore degli altri, un’espressione che parla di meschinità, falsità,
disonore: “Sciacallo”!
Hai ragione...c’è gente con poca memoria e con poco senso civico...
RispondiEliminaE quando è uno di noi, bergamaschi, la cosa fa veramente piangere