giovedì 16 luglio 2020

16 LUGLIO 1950, RIO DE JANEIRO

16 luglio 1950: si gioca una partita destinata a diventare un brandello di storia.
Siamo a Rio de Janeiro, all’Estádio Jornalista Mário Filho nel quartiere di Maracanã, da poco inaugurato e affollato da una folla sterminata (le fonti parlano di quasi 200mila spettatori).
In campo si affrontano la nazionale brasiliana e quella uruguayana, nell’ultima partita del girone finale, di un mondiale, l’unico in cui non era prevista una finale vera e propria, ma un girone conclusivo con titolo mondiale assegnato alla vincitrice dello stesso.
E’ il primo mondiale disputato dopo il tritacarne della Seconda Guerra Mondiale, con numerose ferite ancora aperte in tutto il pianeta: l’assegnazione al Brasile aveva molti significati, ma principalmente serviva un Paese poco colpito dal conflitto. Per i brasiliani diventa l’occasione di mostrare al Mondo il proprio Paese che, allora come oggi, è un concentrato di bellezza e povertà, sorrisi e problemi; ma soprattutto, dopo ben tre delusioni, diventa l’occasione di vincere un titolo mondiale, perché, allora come oggi, gli auriverdes si sono sempre considerati patria morale del football, curiosamente poco vincenti nonostante i grandi campioni espressi fin li.
Già nella prima edizione dell’allora “Coppa Rimet”, giocata proprio in Uruguay per celebrare il centenario dell’indipendenza del Paese (non a caso fu costruito l’Estadio Centenario di Montevideo in quell’occasione), i brasiliani, convinti di poter concorrere fino alla fine per la vittoria, subirono una cocente delusione: nonostante potessero schierare ottimi elementi, in particolare il bomber Araken, furono battuti nella prima fase dalla Jugoslavia di Ivan Bek e Sekulić, finendo subito eliminati.
Nell’edizione italiana del 1934 un sorteggio complicato li costrinse ad affrontare la Spagna del favoloso portiere Zamora e nonostante un gol del “Diamante Nero” Leônidas finì sconfitto ed eliminato al primo turno. Meglio andrà nell’edizione del torneo francese 4 anni dopo, ma un grande risultato si trasformò in fallimento: i brasiliani, convinti di vincere il mondiale, dopo un cammino più che mai accidentato (un incredibile 6-5 ai supplementari al debutto contro la Polonia, una vittoria di misura, in rimonta, sulla Cecoslovacchia alla ripetizione dopo l’1-1 della prima sfida…) incrociano in semifinale l’Italia e, per meglio prepararsi alla finale, lasciano a riposo il Bomber Leônidas e il regista Tim, venendo così sconfitti da Meazza &C. Il terzo posto finale e il titolo di capocannoniere al suo Bomber non soddisfano la torcida.
Così nel 1950 si fanno le cose in grande: il Mondiale di casa appare l’occasione perfetta e i primi risultati sembrano incoraggiare un destino già scritto…4-0 al Messico e 2-0, vendetta-tremenda-vendetta, alla Jugoslavia, ma anche un sorprendente 2-2 contro la Svizzera del bomber Jacques Fatton: i segnali di una certa fragilità difensiva mostrata contro gli elvetici, però, furono ignorati, sepolti dalla grande capacità di fuoco dei suoi attaccanti.
Come detto, la fase finale, prevede un girone all’italiana e gli auriverdes si scatenano: 7-1 alla Svezia di Hasse Jeppson e Skoglund che aveva fatto fuori l’Italia bi-campione in carica, 6-1 alla Spagna di Basora, Zarra e Luis Molowny leggenda del Grande Real che aveva steso i “Maestri” inglesi.
L’ultima, e decisiva, sfida è contro l’Uruguay che, invece, si è fatto largo con fatica fino a quell’appuntamento: dopo la facile vittoria nella prima fase sulla Bolivia (in un girone rimasto orfano delle altre due squadre, Turchia e Scozia, ritiratesi, così come la Francia, chiamata in sostituzione ma ritiratasi a sua volta…), soffre contro la Spagna acciuffando il pareggio nel finale, mentre contro la Svezia il 3-2, sempre in rimonta, arriva grazie alla doppietta del bomber del Peñarol Óscar Míguez.
Nell’ultima sfida contro il Brasile, l’Uruguay deve assolutamente vincere, mentre ai padroni di casa basta un pareggio, ma non si trova nessuno che sarebbe pronto a scommettere un penny sul pareggio o, peggio, sulla vittoria della “Celeste”. Peraltro l’Uruguay non ha mai perso una partita mondiale, avendo vinto la prima edizione da imbattuto, avendo saltato le due edizioni successive e non avendo mai perso in quell’edizione.
In tutto il Brasile si inizia a festeggiare con un carnevale improvvisato: vengono vendute 500mila magliette con scritto Brasil campeão 1950, la federcalcio brasiliana premia i giocatori con preziosi orologi con la scritta “Ai campioni del Mondo”, una fila di Limousine ciascuna con il nome di uno dei calciatori era pronta a portare in trionfo la squadra…
Ci pensa il capitano uruguagio, cervello della squadra, Obdulio Varela a caricare i suoi, a isolarli dal clima che li vuole vittime sacrificali sull’altare del successo auriverde.
Forti di campioni come Ademir, Chico, Bauer, Zizinho, Jair, i brasiliani si buttano all’assalto degli avversari che chiudono bene e con ordine, concedendo poco agli scatenati padroni di casa.
All’inizio del secondo tempo Friaça sfrutta un assist di Ademir e batte Maspoli in diagonale.
La Torcida Brasileira si scatena ma a questo punto, paradossalmente, si decide la sconfitta dei favoriti: Varela, sempre lui, raccoglie il pallone e corre dall’arbitro per protestare, in realtà senza alcun motivo. L’arbitro inglese Reader (primo inglese ad arbitrare una finale mondiale, seppur questa formalmente non lo era, e arbitro più vecchio di sempre a farlo, con i suoi 53 anni e 236 giorni…curiosamente Reader aveva arbitrato la prima partita di entrambe le squadre…) lo sta ad ascoltare e discute per diversi minuti ma naturalmente non si lascia convincere. Con questa azione Varela ha potuto stroncare il ritmo degli avversari, limitare l’entusiasmo di giocatori e pubblico: ha inventato la revisione VAR che lascia in sospeso l’esultanza.
Alla ripresa del gioco la manovra dei brasiliani appare più lenta, meno fluida, forse anche più stanca e la “Celeste” ne approfitta per manovrare col baricentro più alto e al minuto 66 Alcides Ghiggia sulla sinistra salta Bigode, centra per Schiaffino che non da scampo a Barbosa: è l’1-1 che, pur premiando i brasiliani, mette un’improvvisa paura nel cuore del Maracanã.
Il minuto della storia è il 79°: ancora Ghiggia, stavolta a destra, si accentra e vede tre compagni ben piazzati in area ma vede anche Barbosa che, prevedendo il cross, si sposta lasciando sguarnito il primo palo: l’uruguagio beffa il portiere del Vasco Da Gama e porta in vantaggio i suoi.
La situazione diventa surreale, con 200mila spettatori muti, con i calciatori brasiliani che tentano di pareggiare ma che faranno solo una gran confusione contro l’organizzatissimo Uruguay e al triplice fischio un Paese intero precipita nello sconforto: le cronache parlano di una decina di infarti, di gente in lacrime, di tifosi in preda a deliri, addirittura alcuni suicidi…il silenzio surreale è rotto soltanto dalle sirene delle ambulanze.
La cerimonia di premiazione doveva essere sontuosa, addirittura il presidente della FIFA Jules Rimet aveva preparato un discorso in portoghese per omaggiare i campioni: invece tutte le autorità abbandoneranno lo stadio senza una parola, mentre Rimet, scorto il capitano della squadra campione gli consegna la Coppa con una stretta di mano e nemmeno una parola di complimenti.
In Brasile verranno proclamati tre giorni di lutto nazionale e alla fine sarebbero stati certificati 34 suicidi e 56 morti per arresto cardiaco in tutto il Paese. Il commissario tecnico Flávio Costa, minacciato, fuggì in Portogallo per diversi anni, mentre il portiere Barbosa, sarà condannato a vita come responsabile della sconfitta, cadendo in depressione e morendo dopo decenni di ignominia.
E’ il Maracanazo…era il 16 luglio 1950…

mercoledì 15 luglio 2020

UNA BUSTA DI SPERANZE E DELUSIONI

Amantea è una splendida cittadina sul Tirreno, con una Rocca interessante, con la Sila alle spalle a incorniciare un paesaggio blu di mare…è un luogo tranquillo, con meravigliose pasticcerie, accoglienti ristoranti…con persone gentili e disponibili…ho ottimi ricordi dei miei soggiorni li, seppur brevi…
Sono rimasto stupito, dico la verità, quando ho sentito delle proteste dei cittadini amanteani nei confronti di un gruppo di immigrati trasferiti in un edificio del paese.
Ammetto anche di essere stato un po’ deluso: sarà forse un luogo comune, ma mi sono sempre sentito dire come noi del nord, ancora di più i bergamaschi, siamo gente fredda, schiva, poco propensa al calore nei rapporti e all’accoglienza nei confronti di chi arriva “da fuori”…e tutto sommato è vero…ma ho sempre anche sentito gente del sud affermare con orgoglio, invece, del loro calore, il loro carattere solare, la loro accoglienza praticamente totale…
Ebbene, le notizie che arrivavano domenica dalla Calabria mi hanno lasciato un po’ così…però ho voluto provare ad approfondirle e a ragionarci con la mia capoccia.
Innanzitutto ho visto un “assembramento” di un centinaio di persone che si lamentavano, poi un servizio del TG mostrava nella sala teatrale una riunione in cui la commissione prefettizia spiegava la decisione e la gestione dell’operazione: li c’erano una quarantina di persone piuttosto agguerrite.
Io non so se tutte le persone che io ho visto protestare siano proprio di Amantea (ricordo qualche anno fa una protesta simile in un paese vicino al mio dove molti dei “ribelli” erano dei paesi limitrofi) e mi chiedo anche se la presenza delle telecamere abbia influito a regalare qualche minuto di notorietà a qualche bellimbusto.
Di certo si può fare una valutazione numerica: ammesso che quelli che ho visto io fossero persone diverse tra le proteste all’aperto e quelli al teatro, sono un centinaio, più una quarantina; ammesso che io li abbia  sottodimensionati, potrei anche raddoppiarli, arrivando a 280 persone.
Facciamo che chi era in strada era solo una parte degli “scontenti”, raddoppiamo ancora i numeri, arrivando a 560 persone in rivolta per la situazione; ebbene, Amantea conta più di 14mila abitanti: questo significa che meno di un venticinquesimo degli abitanti era in protesta, quindi sentire i telegiornali che parlano di “Paese in rivolta” è quantomeno grottesco.
Aggiungo che nelle immagini e nei video che girano, si vedono molti dei “ribelli” assembrati senza mascherina, o con la stessa posizionata male (tipo a mò di girocollo, che è come non averla…come girare in moto con il casco sul braccio…), ed è piuttosto curioso, visto che per non dire che non apprezzavano il colore della pelle dei migranti, lamentavano il fatto che fossero positivi al CoVid, ancorché asintomatici: se c’è paura di una malattia si cerca di usare tutte le armi per prevenirla, mi sembra.
Amantea, tra l’altro, ha una percentuale bassissima di immigrati (circa 300 persone, poco più del 2% della popolazione), quindi non posso pensare che la gente possa sentirsi “esausta” di chissà quale situazione.
Dopo un paio di giorni gli “ospiti” sono stati mandati al Celio, l’ospedale militare: mentre salivano sul pullman che li portava via, ognuno, al posto di lussuose valigie, con una busta di nylon con dentro le loro povere cose, tutto ciò che rimane loro, sembrava impossibile non pensare alla vita di ciascuno di loro, lontani da casa, in cerca di una speranza di vita migliore per loro e per le loro famiglie…lontani dagli affetti, dalle famiglie, dagli amici, scacciati e reietti come mostri, in silenzio e a capo chino, non hanno reagito all’odio che è stato versato loro addosso, non hanno sbraitato, urlato, insultato come hanno, invece, visto fare negli ultimi giorni: sembrerà assurdo, ma hanno “porto l’altra guancia”, loro, provenienti da un Paese islamico, ci hanno dato una lezione di Vangelo, prima di andarsene.
Ora c’è da scommetterci che sulla vicenda scenderà il tragico silenzio stampa, quello che arriva dopo le urla esagerate di una notizia-non-notizia che serve solo a qualcuno e cannibalizza ogni cosa.
Quello che rimarrà saranno due immagini: la prima vede gli immigrati che risalgono sul pullman con un sacchetto pieno di speranze e delusioni, la seconda è quella che condannerà Amantea a essere identificata come la città che non ha accolto, che ha scacciato, che ha rifiutato.
Penso che sia beffardo il fatto che una città che si chiama AMAntea sia passata alle cronache per un episodio di intolleranza, di xenofobia, di inumanità, anche se continuo a sperare che la stragrande maggioranza degli AMAnteani abbia mantenuto fede alla propria origine.
Sant’Agostino, nordafricano accolto con favore a Roma, diceva “AMA e fa ciò che vuoi”: sarebbe bello ricordarcene, ogni tanto…